- 26/06/2023 16:42
Se il Turismo non è (più) un lavoro per giovani, di chi è la colpa?
Il tema è all’ordine del giorno: il settore dei viaggi, àmbito di lavoro fra i più sognati tra i giovani degli anni ’80 e ’90, sembra aver perso ogni capacità attrattiva. Perché? Autorevoli studi di settore enumerano le possibili cause: stipendi insoddisfacenti, contratti di breve durata, calo demografico sfavorevole al ricambio generazionale. Criticità effettive ma, purtroppo, comuni a molti settori in cui non si registra la stessa penuria di candidati. Cos’altro sta accadendo, allora? Ci sono alcuni nervi scoperti di cui raramente si parla, per non fare e farsi male ma che, data l’emergenza, andrebbero una volta per tutti eradicati.
“I ragazzi cercano sempre meno il posto fisso e sempre di più quello “giusto”, in linea con i propri valori”, riferisce in un articolo Alessandro Rosina, professore ordinario di demografia e statistica sociale all’Università Cattolica di Milano. A frenarli, dunque, non può essere solo l’instabilità occupazionale, peraltro caratteristica di molti comparti.
Il nodo va cercato a monte: in un sistema di vita profondamente mutato rispetto alla fine del secolo scorso e in una scuola che, paradossalmente, è andata avanti senza accorgersene. È evidente che in un contesto di mercato in cui praticamente chiunque può permettersi di pagare un biglietto aereo e un pernottamento nelle più variegate soluzioni abitative, il fatto di lavorare per un settore che – come si diceva un tempo – permette di viaggiare essendo pagato anziché pagare per viaggiare, non sia più dirimente.
Partendo allora dall’assunto che, come spiega l’articolo citato, i giovani prediligono sbocchi professionali capaci di valorizzare la loro distintività, bisognerebbe piuttosto domandarsi quanto un iscritto all’istituto per il turismo o all’istituto alberghiero abbia oggi la percezione di poter arrivare un giorno a centrare questo obiettivo.
Non tenendo conto delle mutate ambizioni degli studenti, le scuole di settore continuano infatti a ragionare su categorie professionali novecentesche, che in questo tempo hanno perso ogni potere seduttivo. Perché un giovane oggi dovrebbe decidere di fare l’agente di viaggi per partire (forse) quando glielo impongono dall’alto mentre può viaggiare liberamente come e con chi desidera anche facendo un altro mestiere? Perché dovrebbe votarsi alla professione di cameriere, ormai totalmente svilita nonché correntemente usurpata da liceali in cerca di “lavoretti” (la definizione la dice lunga) estivi? O, ancora, perché scegliere di fare la guida turistica quando chiunque può improvvisarsi storyteller del territorio eludendo agilmente corsi di formazione e patentini? O fare il cuoco per essere azzerato nella propria professionalità da chiunque si improvvisi influencer della materia spadellando su social e web saltando a piè pari anni di laboratori specialistici, approfondimenti di dietetica, scienze dell’alimentazione e affini?
In ambito universitario, dove le Scienze del Turismo hanno in realtà ben poco a che fare con quella che è l’industria dei viaggi reale, la situazione non si discosta di molto. Lo dimostra il fatto che i laureati in questi dipartimenti, se determinati a rimanere nel settore, siano praticamente costretti a proseguire con master e corsi di specializzazione tenuti da professionisti del comparto e coronati da stage che promettano una qualche collocazione lavorativa di avvio. Cosa che peraltro può fare ogni laureato nelle più diverse discipline.
Dunque da dove ripartire? Qualche anno fa un ministro del Turismo propose di finanziare una serie televisiva ambientata nel settore per invogliare i giovani ad arruolarvisi mentre l’attuale ministra ha ipotizzato – a inizio mandato - l’istituzione di una scuola alberghiera italiana di alta formazione sul modello di quelle svizzere. Senza entrare nel merito della validità delle citate ipotesi, il fatto che qualunque revisione dei cicli di studio per il comparto non provenga dai dicasteri deputati a scuola e Università dice moltissimo sulla priorità che vi si attribuisce. Viene da chiedersi allora perché non si sia ancora giunti ad ipotizzare una soluzione definitiva, trasformando il turismo in una delle possibili aree di specializzazione scolastica o universitaria. Una specializzazione vera e non di facciata, che parta - sin dalla secondaria di secondo grado - da una base solida comune ad altri indirizzi e che offra ai giovani una più plastica prospettiva di poter valorizzare la propria distintività, sui banchi prima ancora che nel lavoro. Sentendosi così pienamente all’altezza dei coetanei avviati ad altri indirizzi di studio: ugualmente colti, strutturati, capaci. E orgogliosi di mettere in atto competenze robuste e rispettabili, al servizio di un settore estremamente bisognoso di nuovo ossigeno.