Il commento del direttore
Remo Vangelista
Riassunto in poche parole, il reverse charge (o, all’italiana, inversione contabile) è un sistema che sposta l’obbligo degli adempimenti Iva dal venditore all’acquirente.
Quando il reverse charge è consentito (i casi sono precisati dalle normative vigenti ed è utilizzabile solo tra soggetti con partita Iva, quindi non può essere applicato con clienti privati), l’Iva non viene più compresa nella transazione: il cliente paga al fornitore solamente il prezzo al netto dell’imposta sul valore aggiunto. Quest’ultima verrà invece calcolata e registrata in contabilità dal cliente, ma non viene più pagata al fornitore.
Prima il cliente pagava al fornitore il prezzo comprensivo di Iva; poi, il sede di liquidazione Iva, detraeva l’importo dell’imposta pagata generando un credito verso lo Stato.
Con il reverse charge, invece, il cliente paga solo il netto; poi, in sede di liquidazione Iva, contabilizza sia a debito che a credito (se detraibile) l’Iva calcolata. Dunque, dal punto di vista Iva, si tratta di un’operazione a somma zero; il vantaggio per il cliente è rappresentato dal fatto che quest’ultimo non deve anticipare il pagamento dell’Iva.
Perché si applica il reverse charge
L’obiettivo primario dell’inversione contabile è evitare le frodi sull’Iva.
Nel dettaglio, il reverse charge prevede l’emissione della fattura senza Iva da parte del fornitore; spetta poi al cliente inserire l’indicazione dell’aliquota e dell’importo dell’imposta.
In altre parole, l’Iva non ‘passa’ dalle mani di nessuno che non sia il cliente o lo Stato, riducendo la possibilità di frodi fiscali. Si evita infatti che il cliente scarichi l’Iva senza che il fornitore la paghi all’Agenzia delle Entrate (la cosiddetta 'frode carosello', nel caso in cui venditore e acquirente siano d’accordo).